Arrival è catalogabile come un film di fantascienza, ma uno di quelli che un po’ come Contact può essere capace di lasciare il segno
Vedendo Arrival, il nuovo film diretto da Denis Villeneuve è stato quasi impossibile non pensare a Contact, un altro film di fantascienza con Jodie Foster dove alla fine di un lungo viaggio il tutto si racchiudeva in un rapporto padre-figlia che faceva da canale di comunicazione.
Qui se vogliamo l’alieno è molto più tangibile e forse anche temibile vista l’atmosfera molto dark che circonda tutta la durata del film: luci al minimo, colori poco saturi ed ambienti claustrofobici tendono infatti a farci temere fin dall’inizio l’arrivo di una civiltà extraterrestre ma è anche questo, insieme ai continui flashback del personaggio principale interpretato da Amy Adams ad invadere una certa intimità un po’ sua e un po’ nostra che riesce alla fine a rendere il film gradevole e a darci la sensazione di aver visto un buon lavoro ultimato nonostante tutte le possibili domande che potrebbero sorgere.
Le incognite, in un film di questo genere, sono le solite: chi sono loro? perchè sono qui? Sono buoni o cattivi?
E il film riuscirà a rispondere a queste domande ruotando attorno ad una tematica troppo spesso sottovalutata nell’approccio con una civiltà aliena: il linguaggio.
Difficilmente però Arrivals avrà il successo che merita per via di un ritmo del film che sembra non riuscire a decollare, quasi intrappolato, e che deve ricorrere all’ignoranza umana per riuscire ad inserirvi alcuni momenti di tensione che altrimenti non avrebbero modo di esistere.
Ma tutto sommato il film merita di essere visto.